Le fiabe popolari sono antichissime, e con la voce del quotidiano raccontano di cose immense. Conservano, sotto veli narrativi, le tracce di passaggi ancestrali: prove, visioni, trasfigurazioni.
Questa storia – La figlia del Sole – affonda le sue radici in un archetipo comune: quello della fanciulla luminosa, nata dalla luce, capace di attraversare la perdita, l’umiliazione, l’esilio, e tornare a sé con una forma nuova, intera, incandescente.
Si trova nella meravigliosa raccolta di Italo Calvino, che l’ha trascritta con voce nitida e viva.
Nella riscrittura di Grandine, la fiaba viene riportata indietro nel tempo. Non verso l’infanzia, ma verso l’iniziazione. Verso il punto in cui non era ancora fiaba, ma rito. Una discesa nei simboli che arriva all’indomani di Calendimaggio, quando l’estate accende le sue prime braci.
Una fiaba che è un varco, un inizio. Un fuoco che cova sotto la cenere.
La figlia del Sole
Quando nacque, le stelle erano già schierate. Gli astrologhi chiamati dal Re lessero il cielo e non ebbero dubbi: sarebbe stata una figlia. Avrebbe incrociato lo sguardo del Sole prima dei vent’anni. E da quell’incontro avrebbe concepito. Il Re ordinò che si costruisse una torre liscia, bianca, senza porte né scalinate. Le finestre troppo alte per essere raggiunte. Nessun raggio doveva toccarla. Nessun cielo parlarle. Venne chiusa lì dentro, insieme alla balia e alla figlia della balia. Due bambine nella semioscurità.
Passarono gli anni. Poi, un giorno, un gioco: una sedia sull’altra. Un’idea come un lampo. Una scala fragile, lo sguardo che si affaccia. Alberi. Fiume. Volo. Cielo. Sole. Il Sole la vide. E la toccò con un raggio. Un solo tocco. Caldo, silenzioso.
La ragazza restò incinta. La ragazza non capiva. Il corpo le cambiava, lentamente, senza spiegazione. Il ventre si arrotondava. Le notti si facevano lunghe, il sonno agitato. Sentiva dentro qualcosa muoversi, crescere. Il parto venne senza preavviso. Fu lungo, dolente. La luce si spaccò in due dentro di lei, e ne uscì una bambina senza pianto. La balia, muta e rapida, avvolse la neonata in fasce d’oro. Fece in modo che il re non sapesse nulla. Per proteggerla. Per salvarsi. Perché certi prodigi non devono passare per la bocca degli uomini.
La bambina era nata nella torre. Aveva pelle chiara e luminosa, un respiro calmo, occhi che non piangevano. La balia, nel silenzio, la portò via. Camminò all’alba verso il campo di fave. La depose tra le foglie larghe e la lasciò lì. Poco dopo, il Re fece uscire la figlia dalla torre. Credeva di aver vinto il destino. Non sapeva che la figlia del Sole era già venuta al mondo. E respirava tra le piante.
Un altro Re passò da quel campo. Era a cavallo, cercava prede. Trovò una neonata avvolta d’oro. La prese con sé. — Sarà figlia mia, — disse alla Regina. — Crescerà con nostro figlio.
Fu così.
Cresceva guardando, ascoltando, osservando ogni cosa con occhi che vedevano oltre, mani capaci, presenza calma. Portava con sé la luce come un seme sotto pelle. Il figlio del Re le fu compagno. Giocavano nei giardini, parlavano a voce bassa. Bastava guardarsi. Quando furono grandi, si riconobbero. Non ci fu atto, ma innocenza. Ma al padre non bastava l’amore. Lei non aveva nome, né stirpe. Venne mandata via. Una casa isolata, lontana dal palazzo. Il figlio del Re pianse. Lei no.
Il giorno delle nozze con un’altra, i confetti vennero distribuiti, come vuole l’uso. Anche a lei. Quando bussarono, aprì la porta senza il capo. Il collo liscio e vuoto, come se fosse fatto d’ambra. Salì lentamente i gradini, rientrò nella stanza. Tornò con la testa tra le mani. La posò, si ricompose. I messaggeri la seguirono trattenendo il fiato, come si segue chi ha appena svelato un prodigio troppo grande per essere compreso. In cucina, il forno si aprì da solo, come se avesse riconosciuto il passo. La legna si mosse, si accostò. Le fiamme si accesero come obbedendo a un respiro. Lei entrò nel forno. Uscì integra, con un pasticcio dorato, perfetto. Lo poggiò con delicatezza. Gli occhi sorridevano. La pelle, intatta. Disse ai messaggeri di portare il pasticcio al re come dono di nozze.
Al palazzo, nessuno ci credette. Ma la sposa, gonfia d’orgoglio, disse che anche lei sapeva farlo. Il forno non le rispose. I servi accesero il fuoco. Lei entrò. Le fiamme la accolsero come un mantello e in un istante la inghiottirono. Il corpo non resistette. La pelle si spaccò, le ossa scricchiolarono. Bruciò tutta, senza un grido. Rimase solo cenere chiara sul fondo del forno.
Passò del tempo. Un’altra sposa fu trovata. Ancora confetti. Lei aprì passando attraverso il muro, sorrideva lieve. Quando bussarono, attraversò la parete come fosse nebbia, comparve accanto alla porta e la aprì dall’esterno. In casa, le porte non avevano più chiavi né chiavistelli. Non c’erano maniglie, né ingranaggi. Le pareti sembravano respirare, modellarsi intorno a chi le attraversava. Era come se ogni cosa, in quella dimora, avesse dimenticato la propria funzione pratica e risposto soltanto a un sapere più antico. I messaggeri si scambiarono sguardi incerti. Nessuno parlò, ma ognuno sentiva il peso di ciò che stava accadendo. Non era solo magia: era qualcosa che domandava rispetto, timore, silenziosa devozione. In cucina, si avvicinò alla padella. L'orcio dell'olio si sollevò da solo e versò il suo contenuto sotto lo sguardo attento di lei, come riconoscendo un comando antico. L’olio sfrigolò. Lei mise le dita nell'olio bollente, e divennero dieci pesci dorati. Le dita ricrescevano. Li incartò. Li consegnò.
La seconda sposa volle provarci. L’olio la bruciò. Morì tra le urla.
Terza sposa. Terza volta. Nuovi confetti. Lei camminava su una tela di ragno e così la trovarono i messaggeri. Scese lieve, come se non pesasse nulla. In cucina, chiamò il coltello. Si tagliò un seno. Ne uscì una trina d’oro. Lunga, viva, ininterrotta. Veniva da dentro, come se la tessesse il cuore. Quando la ebbe finita, richiuse la ferita con un colpo lieve delle dita. Chiese che venisse portata come dono agli sposi.
La nuova sposa seppe del prodigio e si vantò. Provò. Si tagliò. Il sangue la portò via.
Il principe non mangiava più. Non parlava. Non sognava. I medici fallirono. I sacerdoti anche. Chiamarono una maga.Fu consultata la maga. Disse che l’unico rimedio era una pappa d’orzo seminato, cresciuto, colto e cotto in un’ora.
Nessuno parlò. Ma il nome della ragazza si fece spazio nei pensieri di tutti. La cercarono. Lei ascoltò la richiesta e si mise al lavoro senza farsi pregare. In meno di un’ora, l’orzo fu nel campo, maturo, raccolto e bollito. Portò la pappa a palazzo, senza una parola.
Il principe assaggiò la pappa. La trovò amara, immangiabile. Con un gesto istintivo, quasi feroce, la sputò. Lo schizzo caldo raggiunse l’occhio di lei. Le bruciò come una ferita, inattesa e umiliante. La vista si annebbiò per un istante. Rabbia e stupore. Il corpo si scosse, e il nome che le abitava dentro tornò a farsi sentire. Non era più solo figlia: era origine, fuoco, principio. Si raddrizzò appena, lo sguardo teso, come se la carne avesse ricordato chi era.
"Io sono figlia del Sole. Nipote di Re."
Guardava il principe dritto negli occhi. Le mani le restarono ferme, ma il mondo attorno parve retrocedere, riconoscere. E così la riconobbero. E così fu accolta. Si sposarono. Il principe guarì. Lei divenne regina.
Ancora oggi, nei villaggi, tra le cucine fumose e le veglie delle donne, si parla di lei. La si ricorda come una presenza viva, che scalda e illumina. Una che mostrò cosa significa essere nata dal Sole, e non piegarsi mai a nulla che non sia la propria natura ardente.
E che venne al mondo solo per ricordarci che certe figlie curano gli uomini. Possono condividere un regno, una casa, un destino. Ma restano se stesse. Più ancora: si accendono. E quando accade, scaldano chi le ama davvero.
Perchè appartengono alla luce.
In questa riscrittura, la fiaba non si chiude solo con l’amore.
Si apre, invece, su un altro piano: quello del riconoscimento.
La figlia del Sole si ricorda, si nomina. E così accende.
Chi la incontra, chi la teme, chi la ama, non può che essere trasformato. Perché il suo passaggio non è morale, ma iniziatico. Parla alla parte di noi che conosce il fuoco, che sa far crescere dita d’oro, camminare sul vuoto, cucire la propria luce da una ferita. E ci ricorda che siamo eccezionali, che dobbiamo essere fedeli a noi stesse e illuminare con la nostra luce.
Perché la figlia del Sole non si spegne per farsi capire. Si accende per ricordare chi è.
RADICI E FONTI
Italo Calvino, Fiabe italiane, Torino, Einaudi, 1956. https://archive.org/details/lepiubellefiabei0000calv
Domenico Comparetti, Novelline popolari italiane, Livorno, Bastia, 1875. Consulta su Internet Archive: https://archive.org/details/novellinepopola01compgoog/page/n8/mode/2up
Marina Sanfilippo, "La figlia del Sole: la magia secondo Calvino", saggio critico. https://ebuah.uah.es/dspace/bitstream/handle/10017/19779/figlia_sanfilippo_Culturas_2008_N6.pdf;jsessionid=E59356FB1081ADAE56EBB239D2F03EF2?sequence=1
Ho ibridato la versione di Calvino con quella di Comparetti, che è la fonte da cui Calvino attinge. Comparetti l’ha raccolta nella campagna toscana, da una vecchia contadina. Calvino cambia il titolo della fiaba, non Il Sole, ma La figlia del Sole. Sposta così l'attenzione, rimette la figura femminile al centro.
Anche gli dei nel più alto empireo hanno, però, le loro manchevolezze. Nel suo saggio, Sanfilippo mostra come Calvino abbia modellato di suo gusto il racconto: aggiungendo dettagli poetici come la tela di ragno, il passaggio attraverso i muri, la trina d'oro che sgorga dall'orecchio (anziché dal seno, come nel Comparetti). In questa trasformazione, il potere si sposta dalla carne al pensiero: dal seno all'orecchio, come se la creazione diventasse un atto intellettuale.
Elimina il dolore fisico, la gravidanza difficile, il medico, che rendono di un'umanità più cruda la figura della principessa nella torre. Richiama poi il mito di Danae: la luce che entra nella torre, la gravidanza impossibile, la figlia miracolosa. Ma dimentica Circe, maga figlia del Sole, che forse è la parentela più vicina alla protagonista. Una dimenticanza? O una scelta per guidare il mito altrove?
Le simmetrie nella versione calviniana si moltiplicano: tre prove, tre spose, tre cadute, tra dialoghi teatrali e ambasciatori caricaturali, in un gioco di specchi che rilegge la fiaba. La struttura è simmetrica, perfetta, tagliente. Ogni elemento è scelto, ogni parola scolpita. Più discorso diretto, più ritmo, più scena. Il cuore popolare si traveste da teatro. Nel suo finale la figlia del Sole rinuncia ai suoi poteri. Rimette la testa a posto grazie all'energia salvifica del matrimonio. Incoerente. Perché togliere la magia a chi è nata dalla luce? È Calvino scrittore a parlare, non il raccoglitore, e crea un gesto che chiude, una pace che spegne.
Ricordo questa storia da quando ero bambina, quando mia madre me la leggeva da una vecchia edizione economica delle “Fiabe italiane”. Non ci trovavo nulla di divertente. Mi sembrava che la protagonista facesse cose assurde a caso e che alla fine diventasse scioccamente una brava ragazza. Non capivo, come se le mancasse qualcosa. La ascoltavo avidamente, ma non era una delle mie preferite. Poi l’ho raccontata molte volte ai bambini (e lì gli espedienti buffi e teatrali funzionano alla grande) e ho cominciato ad amarla perchè loro la amavano. Ne ricordo una bella versione, fresca e calviniana, dello storyteller Lorenzo Caviglia.
Ogni narratore ha regalato qualcosa di suo alla Figlia del Sole. Mi sono chiesta dove mi colloco io, come narratrice di questa storia. Non mi appartiene più il mondo contadino, ma neanche quello di Calvino o Comparetti.
Io ho bisogno di un mito antico e nuovissimo, di energia indomita e luce che brilla. Avevo bisogno di raccontarla così.
Se questa storia ha acceso per te una una scintilla
come un raggio di sole che filtra tra i rami.
perché ogni luce nuova ha bisogno di un altro cielo in cui accendersi.
Unisciti a Grandine — se senti il richiamo delle voci selvagge, solari, indomite.
Che le parole ti conducano,
Laura