Ogni trasformazione del corpo, dell’anima, del ciclo vitale di una donna si radica in un tempo che non è lineare, ma rotante, vivo, lunare. Melusina è una figura che nasce nel cuore della letteratura medievale, ma le sue radici affondano in un terreno più antico: quello del mito, della dea, della creatura dell'Altromondo. Il suo nome compare nel Roman de Mélusine di Jean d’Arras, scritto nel 1392 per il duca di Berry, desideroso di nobilitare la propria genealogia con un’origine soprannaturale. Ma il racconto di Melusina è intrecciato a leggende precedenti.
Non si entra in Melusina senza lasciare qualcosa di sé sulla riva: una certezza, un giudizio, un nome. In questa leggenda, il corpo si fa acqua, il tempo si fa spirale, e il silenzio si fa sacro. È una storia che chiede rispetto, come la trasformazione chiede spazio. Non va capita subito — va ascoltata come si ascolta una sorgente nascosta.
Melusina
Si racconta che un giorno, nel cuore di un bosco che oggi non ha più nome, il re Elinas vide una donna presso una sorgente. Sdraiata nell'acqua, con i capelli, lunghi e densi mossi dalle onde leggere. Era Presine, creatura dell’Altromondo. C’era nel suo silenzio qualcosa di più antico del tempo. I suoi piedi non lasciavano tracce sulla terra, ma l’erba cresceva più verde dove si era fermata. Elinas la vide e credette di vederla per la prima volta, ma lei era sempre stata lì — tra le pieghe della sorgente, nei riflessi delle acque, nei sussurri delle rocce.
Elinas la desiderò, e Presine accettò l’unione solo a una condizione: mai, mai avrebbe dovuto guardarla nel momento del parto, quando il corpo femminile si fa portale tra i mondi, quando la forma si dissolve e qualcosa di immenso prende corpo.
Elinas dapprima tenne fede alla parola ed ebbe da lei due figlie. All'avvicinarsi della terza nascita, non seppe sostenere lo stupore. Quando la vide — non come l’aveva desiderata, ma come era davvero, immersa nel parto, tra sangue e potenza — sentì il terrore montargli in petto. Qualcosa in lei gli apparve inumano, troppo vasto, troppo altro. Fuggì da quella visione con il volto stravolto e parole di ripudio sulle labbra. Presine, tradita e respinta, si alzò in silenzio. L’acqua della sorgente si fece più scura per sette giorni e sette notti.
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Non lo maledisse. Scomparve. Portò con sé le tre figlie avute da Elinas— Melusina, Melior e Palatina — e le crebbe lontano, ad Avalon, l'isola delle mele. Le iniziò ai misteri delle fonti, al linguaggio silenzioso dei serpenti, alla disciplina del non detto. Ma ogni ferita tende a ripetersi.
Quando Melusina crebbe, le fu raccontato cosa era accaduto: il tradimento, lo sguardo spezzato, la fuga del padre di fronte a ciò che non sapeva accogliere. Sentì dentro di sé la fiamma fredda dell’ingiustizia. Non bastava sapere: voleva agire. Una notte, guidando le sorelle, tornò nei territori di Elinas. Lo trovò nel suo castello, vecchio e stanco, ancora prigioniero della paura che lo aveva allontanato dalla verità. Chiamò l’acqua e la pietra a raccolta. Fece sorgere un cerchio di mura nel cuore di un monte, là dove nessun uomo aveva mai camminato. Elinas vi fu condotto, non con violenza, ma con una dolcezza che lo disarmò. E lì restò, in una prigione senza catene, tra gocce che cadevano lente e muschi che crescevano sul silenzio. Un luogo di sospensione, non di vendetta. Un luogo dove anche lui potesse, forse, ricordare.
Così Melusina, nel tentativo di ristabilire un equilibrio, ne ruppe un altro. E fu proprio allora che la madre, da lontano, comprese: la figlia non aveva infranto, ma rivelato. In quel gesto — l’aver richiamato acqua e pietra, l’aver costruito una prigione che era anche eco — Melusina aveva affermato un potere antico, troppo a lungo sopito. Non ci fu dolore, ma bellezza. Ci fu il manifestarsi pieno di ciò che era sempre stato. Nessuno udì parole, ma la trasformazione parlò da sola. Ogni sabato, Melusina avrebbe mutato il suo corpo in serpente dalla vita in giù. Fu un ritorno. La coda che brillava come giada viva nera il sigillo. E in quella pelle che mutava, c’era la storia dell'abitare il potere senza rinnegarlo. Il sabato era il ritorno a quel corpo originario, a quella sapienza che non si lascia addomesticare.
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La chiamavano Fonte della Sete, dove solo chi ha perso tutto può bere. Lì, dove la foresta si apre in un respiro umido e l'acqua canta tra le radici, Melusina sedeva un giorno, i piedi immersi e i capelli sciolti, pettinandoli con un pettine d’osso e silenzio.
Raimondino, signore di Lusignano arrivò in fuga, ferito, insanguinato, con lo sguardo di chi ha toccato la colpa e non sa ancora come portarla. Aveva appena ucciso lo zio, per errore, durante una battuta di caccia: un colpo mancato, un urlo, il sangue. Era giovane e bello, con il mantello strappato e una macchia scura sulla fronte. I cavalli l’avevano abbandonato. La notte lo inseguiva. La sua paura era più viva del suo cuore.
Quando la vide, si bloccò.
Lei alzò lo sguardo, e non si stupì. Come se lo aspettasse. Come se quel momento fosse sempre stato inciso nella pietra. Andò verso di lui senza parlare. Le sue mani, fresche d'acqua, toccarono il volto di Raimondino. Sfiorò il taglio sulla tempia. Le sue dita scorsero sulla pelle con la cura di chi sa guarire senza forzare. Prese dell’acqua con le mani a conca e gliela porse. Lui bevve. L’acqua era dolce, e sapeva di prima infanzia. Lei lo condusse sulla riva e lo fece sedere. Gli slacciò il mantello, gli sollevò la camicia. Ogni gesto aveva la grazia di un'offerta. Gli lavò le ferite, e mentre lo faceva, il tempo rallentava. L’aria intorno si fece densa. Il bosco tacque.
Raimondino la guardò. Vide le braccia lucide, i capelli intrisi d’oro e muschio. Il suo corpo, bello e necessario. La desiderò, senza sapere dove finiva la gratitudine e cominciava il desiderio. Lei si avvicinò. Lo toccò al petto. Lui tremò. Poi, come se l'acqua stessa li avesse sospinti l’uno verso l’altra, si baciarono. Le loro mani si cercarono, si trovarono. Le loro bocche si riconobbero. I loro respiri si intrecciarono come radici che affondano in una stessa fonte. Quando si sdraiarono sull’erba, erano nudi. Ogni tocco, una promessa. Ogni gemito, una preghiera. Lui affondò il volto nel collo di lei, e il suo profumo era quello dell’acqua che ha conosciuto la luna.
Fecero l’amore così: come due che hanno perso tutto e trovano, in un solo gesto, una nuova nascita. Lei lo avvolse e lo ascoltò. Lui sentì di essere, per la prima volta, integro. Quando si addormentarono, le sue dita erano intrecciate alle sue, e il bosco riprese a respirare. L’alba li trovò così, e nessuno dei due aveva più fretta.
Melusina gli promise amore, prosperità, lignaggio — ma pose una sola condizione: non avrebbe mai dovuto cercarla né guardarla nel giorno del sabato. Quel giorno le apparteneva. Chiese di potersi rifugiare in una camera nascosta, costruita nel punto più segreto del castello di Lusignano, dove l'acqua scorreva silenziosa in una vasca di pietra viva. Ciò che chiedeva a Raimondino non era solo rispetto, ma fede in lei.
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Raimondino accettò. La sposò con gioia e gratitudine. E da quel giorno il castello di Lusignano si popolò di prodigi. Melusina eresse torri che sfidavano il cielo, fece sgorgare fontane dove prima c'era polvere, disegnò canali, boschi e mura. Ovunque posasse lo sguardo, la terra fioriva. Nella camera nascosta, lontana dagli sguardi di tutti, si immergeva segretamente il sabato nella sua vera forma, lasciando che il corpo parlasse un linguaggio antico. Così onorava il mondo da cui proveniva.
Fu costruttrice, guaritrice, madre. Conosceva i segreti delle erbe e delle pietre, e il linguaggio dei venti. La gente la onorava con rispetto e timore. Con Raimondino ebbero dieci figli. Ognuno portava nel corpo un segno dell’Altromondo.
Il primo figlio si chiamò Uriano, e fu duca di Lussemburgo: un uomo d’arme e di ingegno. Elinas, il secondo, aveva un solo occhio in mezzo alla fronte e fu un feroce guerriero. Antone, detto il Nero per le sue mani scure come carbone, fu il terzo: malinconico e riflessivo, eppure saggio e amato dal popolo. Fracasso, il quarto, aveva orecchie d’asino, ma possedeva una voce che incantava chiunque l’ascoltasse. Odon, il quinto, mostrava denti ferini, ma aveva cuore di poeta. Guyon e Thierry combatterono nelle terre orientali e portarono il nome di Melusina fino ai margini del mondo. Geoffroy la Gran Dent, forse il più temuto, aveva un solo dente enorme che gli sporgeva dalla bocca. Arnault, il nono figlio, aveva la pelle che cambiava colore con le stagioni e il silenzio degli alberi nello sguardo. Fredemund, il decimo, nacque in una tempesta e un giorno sparì in un lago, come se l’acqua lo avesse richiamato a sé. A ognuno Melusina diede il suo ruolo nel mondo e un dono. Li crebbe come si coltiva un giardino segreto: con dedizione, mistero, e la certezza che ogni fiore sboccia a suo tempo. Ogni figlio era una parte del suo corpo mitico disseminata nel mondo. Nessuno era uguale, e in ciascuno viveva un riflesso dell’acqua e della terra da cui erano nati.
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Ma il dubbio serpeggiava.
Il fratello di Raimondino cominciò a insinuare domande. Perché tua moglie si ritira ogni sabato? Perché nessuno può avvicinarla? Che cosa nasconde?
Raimondino lottò contro quei pensieri. Amava Melusina con tutto il cuore. Ma il tarlo del sospetto, lentamente, aprì una fessura. Una notte, incapace di resistere, si avvicinò alla porta proibita. Il sabato. Il giorno sacro. Aprì. La vide. Vide la sua amata immersa nell’acqua, i capelli sciolti, il corpo che mutava, che scivolava nella forma ancestrale. La coda di serpente, lucente e terribile, guizzava nell'acqua.
Vedere fu tradire, ma nonostante il patto spezzato Melusina gli rimase ancora accanto.
La frattura più profonda non avvenne lì, in quel silenzio. Avvenne anni dopo.
Quando Geoffroy, il figlio dai denti enormi, incendiò l’abbazia di Maillezais in un impeto d’ira e dolore, qualcosa si incrinò in Raimondino. Non era solo l’orrore del gesto. Era la paura di quel sangue, della discendenza che aveva generato. Melusina aveva sempre detto che ogni figlio portava in sé un frammento di un mondo antico, ma ora quel mondo sembrava esplodere nel cuore della terra cristiana.
Fu allora, in preda alla collera e al dolore per il gesto del figlio, che Raimondino — davanti alla corte, ai servitori, agli uomini della città — urlò il segreto.
"Mai avrei dovuto sposarmi e avere discendenza con questo mostro dalla coda di serpente!".
Quelle parole furono il vero tradimento. Non fu la vista del sabato a distruggere l'incanto, ma l'urlo che ne seguì, l'aver esposto alla luce ciò che doveva restare ombra, aver profanato il mistero con la pubblica parola. Lo fece con disperazione. Eppure le parole, una volta pronunciate, non si possono ricacciare nell’anima.
Fu quella voce, più dello sguardo, a dividerli. Melusina di fronte a quelle parole, non poté più restare. E lui lo capì, nell’istante stesso in cui parlò. Sentì il vuoto subito dopo il suono. Il gelo non era nel giudizio altrui, ma nel proprio cuore, che la sentì allontanarsi prima ancora che se ne andasse.
Il silenzio si fece crepa. Lei lo guardava fisso negli occhi. Il suo corpo cominciò a mutare, non più lentamente, non più in segreto. Davanti a tutti, il cambiamento prese forma. Le sue gambe si fusero come rami che si torcono al sole, la pelle si tese, lucente e iridescente come squame bagnate. Le braccia si allungarono in ali membranose, scure come la notte che precede la tempesta. Le vesti si lacerarono, e ciò che rimase era una creatura alata, possente, con il petto nudo e il ventre che brillava di un’antica luce azzurra. Un drago, ma non un mostro: una visione, un ricordo di qualcosa che il mondo aveva sepolto.
Melusina si alzò in volo con un battito che fece fremere le torri e tremare le finestre. Passò tra le mura del castello con un sibilo che era un lamento e un canto. La sua coda disegnava scie nell'aria del tramonto. Poi scomparve oltre le nuvole, lasciando solo vento, silenzio e una memoria che nessuno avrebbe più potuto cancellare.
Scomparve.
Non fu più vista come donna. Ma ritorna. Tornò quando Raimondino, ormai vecchio e consumato dal rimorso, morì. Ogni volta che muore un Lusignano, si dice che un drago s’alzi in volo, avvolgendo le torri nel lamento.
Melusina vive ancora dove l’acqua incontra la pietra. Abita le vene delle donne silenziose. Quelle che costruiscono, ma conservano segreti. Quelle che nessuno capisce del tutto. Si nasconde nelle lacrime che nessuno vede. Nei desideri mai detti. Nell’istante in cui una donna smette di compiacere e inizia a ricordare chi è. Quando arriva il giorno in cui avere scaglie di serpente e ali di drago.
RADICI E FONTI
Jean d’Arras, Le Roman de Mélusine, 1392; edizione italiana: La leggenda della fata Melusina, a cura di Vittorio Fincati, Studio Tesi, 2020; oppure Melusina. Romanzo del XIV secolo, a cura di Irene Zanini-Cordi, Marsilio, 2021.
A. S. Byatt, Possession: A Romance, Chatto & Windus, 1990; edizione italiana: Possessione, traduzione di Anna Nadotti, Einaudi, 1991.
Devo questa storia a Paola Balbi, che ne racconta una versione deliziosamente ammantata di mistero, senza tempo e senza luogo preciso, dove i personaggi non hanno nome.
La mia versione della storia di Melusina nasce dall’intreccio tra la fonte originaria medievale e la riscrittura che ne fa fare a un personaggio del suo romanzo A. S. Byatt. C'è quindi il tentativo di restituire profondità archetipica e simbolica alla figura della donna d’acqua. L’introduzione con Presine e la genealogia materna è mantenuta per preservare la struttura ciclica e rituale del mito: madre e figlia legate da una ferita comune.
Nel riscrivere il rapporto tra Melusina e Raimondino, ho voluto dare spazio alla tenerezza, al silenzio e al mistero che custodiscono i legami profondi. Ho inserito dettagli che amplificano il loro patto come gesto sacro, e la maternità di Melusina non come semplice atto biologico, ma come atto creativo che fonda una stirpe. I figli, segnati da caratteristiche soprannaturali, sono narrati non come mostruosi, ma come portatori di un’eredità di soglia, simboli dell’unione tra mondi.
Questa narrazione non vuole offrire una cronaca, ma una leggenda viva, sospesa tra acqua e parola, in cui la metamorfosi è rito, e la voce femminile — anche quando tace — resta centrale.
🌿 Se questa storia ha fatto vibrare qualcosa nel profondo
come chi riconosce un’eco antica dentro di sé.
perché anche i nomi perduti possono ancora tornare a splendere.
Se senti che nel tuo corpo c’è memoria d’acqua, di serpente, di metamorfosi.
Che le parole ti conducano,
Laura
Grazie di questa meravigliosa narrazione!