Nel cuore di ogni fiaba autentica pulsa un viaggio. Non un semplice spostamento da un luogo all’altro, ma una trasformazione radicale dell’essere. Quando leggiamo o raccontiamo fiabe con protagoniste femminili, siamo spesso abituati a uno sguardo che le vuole passive, in attesa, silenziose. Ma se le osserviamo con occhi diversi, scopriamo figure potenti, capaci di attraversare perdite, inganni, prove e discesa agli inferi, per tornare mutate e luminose.
Queste riflessioni nascono dalla fiaba sul numero precedente di Grandine. Puoi trovarla qui
Campbell e la forza del monomito
Campbell, con il suo celebre L'eroe dai mille volti, ha influenzato profondamente la cultura narrativa contemporanea: dalla sceneggiatura hollywoodiana ai videogiochi, dalle biografie motivazionali alle serie TV. Il suo modello – un ciclo in cui l'eroe lascia il mondo ordinario, affronta prove, ottiene un dono e ritorna trasformato – è diventato quasi uno stampo narrativo universale. Ma è davvero universale?
Quando Maureen Murdock gli chiese dove fosse il viaggio dell’eroina, Campbell rispose: “La donna è già lì dove l’eroe vuole arrivare”. Una frase apparentemente lusinghiera, ma che cancella la necessità o la possibilità di un percorso trasformativo per la donna.
Il viaggio dell'eroina secondo Maureen Murdock
Maureen Murdock è una psicoterapeuta statunitense, studiosa di mitologia e narrativa simbolica, con una formazione in psicologia junghiana e in terapia familiare sistemica. In dialogo con le teorie di Joseph Campbell, da cui si è inizialmente sentita ispirata ma poi criticamente distaccata, si è distinta per aver individuato i limiti del modello eroico maschile quando applicato alle storie e alle esperienze femminili. Il suo libro The Heroine's Journey, pubblicato nel 1990, è diventato una pietra miliare negli studi di genere e nei percorsi di empowerment al femminile. Murdock propone un modello narrativo e psicologico che riconosce la necessità di una separazione, discesa e rinascita proprie dell’esperienza femminile, valorizzando l’integrazione tra maschile e femminile interiori. Le sue teorie sono oggi adottate in ambiti che spaziano dalla narrativa terapeutica alla sceneggiatura, dalla formazione personale allo storytelling trasformativo, e risuonano con particolare forza nelle comunità che esplorano percorsi iniziatici, ciclicità e archetipi del femminile sacro.
Il viaggio dell’eroina non è lineare né glorioso. È un cerchio spezzato che lentamente si ricompone, una spirale che scende per poi risalire da un punto più profondo. È un percorso interiore, ciclico, incarnato. Un passaggio iniziatico che attraversa ferite, illusioni e ritorni, per generare una nuova alleanza tra forze opposte.
Ecco le tappe, come passaggi simbolici, soglie da varcare:
1. Separazione dal femminile. Il primo gesto dell’eroina è spesso un rifiuto: del materno, dell’intuizione, del corpo, della ciclicità. In questa fase, il femminile appare debole, passivo, inutile. È l’inizio della distanza. L'eroina si distanzia dalla madre volontariamente o per necessità, ma si crea una frattura nel rapporto madre-figlia. Il femminile, vissuto attraverso lo sguardo culturale dominante, viene percepito come mancante, come qualcosa da superare. Se una donna continua a misurarsi con criteri creati da un contesto maschile, finirà per sentirsi carente rispetto a quei modelli. L’adesione a ideali esterni spesso porta a un allontanamento dalle qualità profondamente femminili, considerate inutili o deboli. Il distacco dalla madre è anche un distacco e una negazione della propria parte istintuale. In questa trama antica, la madre si staglia come la prima soglia da oltrepassare. Non è colpevole, ma custode inconsapevole di un ordine antico, di un mondo che ha insegnato a temere la forza selvaggia del femminile. L’eroina, per trovare la sua voce, deve prima disfare il velo proiettato su quella figura: capire che la madre che conosceva era anche un’ombra culturale, un riflesso di ciò che le era stato tolto. Solo allora potrà vederla davvero, e riconoscere in sé ciò che credeva perduto.
2. Identificazione con il maschile. L’eroina si arma di razionalità, controllo, ambizione. Cerca di "farcela da sola", diventando efficiente, logica, performante. Spesso questa fase porta al successo apparente, ma anche a una progressiva perdita di senso. La maschera regge, ma dentro qualcosa comincia a incrinarsi. In un mondo che premia l’efficienza e l’affermazione, la giovane sceglie (o si ritrova costretta a scegliere) di aderire a modelli esterni, spesso maschili, per sentirsi forte, valida, vista. Alcune donne finiscono per vivere in una continua corsa alla perfezione, per timore di sentirsi inadeguate o inferiori. Il bisogno di dimostrare valore diventa una gabbia invisibile, spingendo a lavorare di più, migliorarsi, aderire a standard di bellezza e successo imposti dall’esterno. Così, le qualità uniche e profondamente femminili rischiano di venire percepite come difetti da correggere, invece che come potenziali da custodire.
3. Il fallimento dei modelli interiorizzati. Il sistema in cui l’eroina ha cercato riconoscimento si rivela sterile. I modelli patriarcali – se vissuti in modo unilaterale – diventano gabbie. La frattura tra ciò che appare e ciò che è si allarga. Inizia la crisi: una stanchezza profonda, un dolore che non trova nome, la sensazione di essersi perduta. Quando il maschile interiore diventa tirannico, la donna può iniziare a sentire che qualunque cosa faccia non è mai abbastanza. Ogni compito compiuto perde valore nell’istante stesso in cui viene terminato, perché subito si impone l’urgenza di fare di più, meglio, altrove. Questo continuo slittamento dell’attenzione verso ciò che manca, verso l’azione successiva, svuota il presente e logora la percezione di sé.
4. La discesa e il confronto con l’ombra. È il momento in cui la vita, spesso in seguito a un evento traumatico o a una perdita, costringe l’eroina a scendere nei luoghi più oscuri di sé. Questo è il viaggio nell’inconscio: la notte dell’anima, il ventre della balena, il tempo sospeso in cui tutto sembra franare. È una fase segnata da lutti silenziosi, isolamento, perdita di senso, rabbia e smarrimento. Ma è anche il momento in cui la donna può iniziare a vedere ciò che prima era nascosto: le parti di sé che ha rifiutato, i sentimenti repressi, le radici dimenticate. È nel buio che si incontrano le figure simboliche – la strega, la madre folle, la donna selvaggia – spesso demonizzate nei racconti tradizionali. In realtà, esse custodiscono il potere rigenerativo del femminile rifiutato.
Le storie tradizionali dell’eroe si soffermano sul costruire un’identità, sul conquistare il mondo esterno. Ma il viaggio dell’eroina richiede un altro tipo di forza: quella che nasce dal riconoscere i propri limiti, dal dire di no agli eccessi, dal rinunciare all’idealizzazione del successo. Trovare la propria autonomia non significa rifiutare il mondo, ma smettere di rincorrere approvazione. È così che si apre lo spazio per l’interezza. Molte donne, per inseguire l’eccellenza, hanno lasciato dietro parti vitali della propria anima. Ma arriva un momento in cui l’eroina si ferma, guarda ciò che ha perso e dice: basta così. Quel momento è l’inizio del vero ritorno.
Durante questa discesa, il tempo perde consistenza. Non c’è giorno né notte, solo buio e immobilità. L’eroina appare assente agli occhi degli altri: triste, distante, incomprensibile. Le lacrime non hanno nome, ma sono sempre presenti, anche quando non scorrono. Si ritira (o è costretta a ritirarsi) dalla vita quotidiana, spesso in uno spazio di isolamento. In realtà, questo ritiro è sacro. È lo spazio in cui il corpo e l’anima iniziano a scavare, a cercare, a riconoscere i frammenti perduti.
Nel profondo, l’eroina può incontrare archetipi antichi: dee dimenticate, madri oscure, creature sottomarine o animali guida. Sono aspetti di sé rimossi, repressi, che ora chiedono di essere ascoltati. In questo processo può emergere la memoria di ciò che è stato perduto nell’identificazione con il maschile: il gioco, l’immaginazione, la capacità di sentire. Il contatto con la terra, con le ossa, con le radici diventa un modo per tornare a casa.
Questa fase può essere lunga e senza scorciatoie. Il dolore non può essere evitato, né medicato in fretta. È un’esperienza iniziatica che può condurre l’eroina a una consapevolezza nuova, ma solo se vissuta con coraggio e rispetto. In questo buio, la donna non si rialza per fuggire, ma per rinascere. L’energia che sembrava distruttiva si rivela creatrice. L’ombra è grembo.
5. La riscoperta del femminile profondo. Non più negato, il femminile riemerge come forza generativa. L’eroina riconosce il valore dell’intuizione, della ciclicità, della lentezza. Riscopre la compassione, la creatività, la connessione con la terra. E soprattutto, recupera le figure archetipiche demonizzate: la strega, la matrigna, la pazza. Le accoglie, le ascolta, ne ricompone la dignità. È un atto di guarigione profonda: prendendo per mano la madre rifiutata, la figlia abbandonata in sé si rialza. In questa fase, l’eroina non solo integra le sue ferite, ma restituisce voce e volto a ciò che era stato relegato nell’ombra.
6. La riconciliazione con il maschile. Dopo aver integrato il proprio femminile profondo, l’eroina si confronta con l’archetipo maschile interiore. Non più come forza dominante o oppressiva, ma come energia creativa da riequilibrare. Il maschile, separato dal femminile, si era irrigidito in un’identità sterile, competitiva e cieca all’anima. Solo il riconoscimento del dolore porta alla trasformazione. L’eroina riconosce in sé questa energia ferita e la trasforma in forza d’anima. Maschile e femminile tornano a danzare insieme.
7. Il ritorno al mondo. La trasformazione non si compie nell’isolamento. L’eroina, ormai ricomposta, torna al mondo portando un nuovo ordine, un nuovo sguardo. La sua sola presenza rigenera. Il mondo la riconosce cambiata – o la respinge. Ma lei, finalmente, non si adatta: esiste pienamente. E in questa esistenza, risana.
Viviamo in una cultura che alimenta la separazione. Ci viene insegnato a dividere: mente e corpo, spirito e materia, uomo e donna, giusto e sbagliato. Questo pensiero dualistico genera distanza, conflitto, controllo. Ci abitua a guardare l’altro come qualcosa da temere, giudicare, conquistare. Ma questa visione frammentata ferisce: crea solitudini, paure, esclusioni. Il viaggio dell’eroina non è allora solo personale, ma collettivo. È un atto di guarigione del mondo. Riconoscere l’altro come parte di sé – l’altro genere, l’altro essere vivente, l’altro punto di vista – è il gesto più rivoluzionario. È l’inizio di un tempo nuovo: non più costruito su opposizioni, ma su relazioni. Un tempo in cui esistere non significa dominare, ma appartenere.
Nel buio si partorisce la Figlia del Sole
La Figlia del Sole incarna questo percorso. Nella fiaba, è una creatura luminosa precipitata in un mondo di inganno e oscuramento. Nasce nel buio della torre e viene separata dalla madre, giovane e inconsapevole. Accolta dalla famiglia di un altro re si adatta a un modello patriarcale imposto, ma quel tipo di forza non basta, non nutre, non guarisce. Viene allora fraintesa, allontanata, costretta a vivere separata dalla comunità perchè ritenuta non degna. Le si trovano sostitute: il suo posto di sposa del principe, e futura regina, viene dato ad altre. Nella solitudine e nell'isolamento può aprirsi alla discesa, alla perdita, all’ascolto del buio. Così scopre il suo vero potere, quello che le è sempre appartenuto. Agisce il suo potere e ritorna a splendere: non perché venga salvata, ma perché dentro di sé ha la sorgente della propria luce. Il suo corpo, da oggetto di possesso, diventa rivelazione. La trina d'oro che le esce dal seno è simbolo di una bellezza rigenerata.
Nella sua rinascita, mostra che il vero potere del femminile non è nella seduzione o nella fragilità, ma nella capacità di attraversare il buio, trasformarlo, e tornare alla luce più intera di prima. Più consapevole della propria forza. Una luce che non solo la guarisce, ma risana anche il principe, disingannato e trasformato dal riconoscimento della verità, e l'intera comunità, che riaccoglie la sua presenza come principio di equilibrio, giustizia e bellezza. Il ritorno alla luce è dunque atto politico e poetico: restituisce armonia all’ordine del mondo.
In questa chiave, la fiaba non è più un racconto edificante o una formula di intrattenimento, ma una mappa di trasformazione. A dichiararlo è la stessa protagonista "Io sono figlia del sole e nipote di re". Nell’epica orale, l’ichos è la dichiarazione solenne dell’identità dell’eroe o dell’eroina, un atto performativo che sancisce il passaggio da stato invisibile a presenza piena e riconosciuta. È parola incarnata: non semplice frase, ma rivelazione, pronuncia che crea realtà. In quel momento, la protagonista si nomina, e nominandosi, si solleva, si raddrizza, si mostra. È il culmine della sua rinascita e il gesto che restituisce verità al mondo.
E questo è il cuore del viaggio iniziatico al femminile: partorire sé stesse nella notte.
Accettare la ferita
La guarigione in La Figlia del Sole non è solo personale: è una trasformazione che si irradia. Guarisce perché accetta la ferita e la attraversa, senza negarla. Guarisce il principe, perché lo costringe a vedere ciò che era celato: l'inganno, l'errore, ma anche la bellezza che aveva perduto. E guarisce la comunità, che assiste al suo ritorno come a un evento sacro: la luce che pensavano svanita ritorna, ma più consapevole, più integra. La sua presenza ristabilisce l'ordine, la verità e il senso: la giustizia non arriva da fuori, ma si compie attraverso il suo stesso esistere rivelato. Il suo corpo è luce, la sua nascita è il principio di una nuova era.
In ogni racconto che tocchiamo con rispetto, possiamo riconoscere queste tappe. Possiamo raccontarle alle bambine e ai bambini, alle donne e agli uomini, per ricordare che non c'è un solo modo di attraversare il mondo. E che c'è una saggezza antica nei viaggi che sanno farsi cicli, ritorni, profondità. Il passaggio nelle tenebre – la discesa, lo smarrimento, l'umiliazione, la perdita dell'identità – non è una parentesi da superare in fretta, ma è la soglia alchemica del cambiamento. Senza attraversare l'ombra, la luce non si rivela. Il buio non è il contrario della luce, ma il suo grembo. In molte fiabe, il pozzo, la caverna, il bosco o l'allontanamento sono i luoghi dove la protagonista si perde per potersi ritrovare: è lì che cade ogni finzione e ogni ruolo imposto, e può emergere l'essenza nuda della sua voce. La notte non è nemica: è matrice. E solo chi ha imparato a vedere nel buio, può tornare a illuminare il mondo.
RADICI E FONTI
Maureen Murdock, The Heroine's Journey: Woman's Quest for Wholeness, Shambhala, 1990 (trad. it. Il viaggio dell'eroina. La risposta femminile al viaggio dell’eroe, Dino Audino, 2010)
Joseph Campbell, The Hero with a Thousand Faces, Princeton University Press, 1949 (trad. it. L'eroe dai mille volti, Lindau, 2008)
🌞 Se questa storia ha lasciato un’impronta nel tuo cammino
come chi si volta un istante, prima di oltrepassare la soglia.
perché ogni voce riaccende sentieri dimenticati.
se il viaggio interiore chiama anche il tuo nome.
Che le parole ti conducano,
Laura